È un manager o un millenial nato in anticipo? È uomo di tecnologia, marketing o viene dal mondo dell’editoria? Parlare di Chief digital officer significa anche parlare di una figura professionale complessa. E le case history – che non mancano – lasciano aperta la domanda su quale tipo di formazione professionale sia necessaria al CDO.
Sembra quasi di porre una domanda esistenziale: da dove arriva il nuovo chief ? E dove va? La definizione del nuovo ruolo sembra cambiare in base al contesto aziendale e le risposte mutano non di poco tra i Paesi dove il CDO sta emergendo un po’ come un fiume carsico e quelli nei quali, come scrive Forbes, è invece ormai considerato come l’ultima acquisizione nella lunga serie di “snazzy C-Level titles”.
Chi è il CDO? Per alcuni è un ibrido di marketing e tecnologia, per altri è un mix di talenti che unisce l’esperienza nell’e-commerce come nella gestione di team complessi. Di certo conta anche l’ambito nel quale è chiamato a svolgere il suo ruolo di chief. Sree Sreenivasan, nuovo CDO del Metropolitan Museum, ha una lunga esperienza alla Columbia school of journalism, ma di sé sottolinea anche che è nato e cresciuto attorno al Met: ama il museo più famoso degli Stati Uniti e lo considera uno di famiglia.
Il dibattito attorno al cursus professionale ideale del CDO è aperto e molto ricco. Si sottolineano le competenze specifiche, ma anche l’attitudine. C’è chi lo vede simile a Pep Guardiola, grande calciatore poi diventato grande tecnico, altri se lo immaginano come un Josè Mourinho, calciatore senza troppe pretese, ma con talenti propri che lo hanno fatto diventare comunque grande e vincente allenatore.
In un mondo nel quale tutti bazzicano bene o male i social e nel contempo anche le lavastoviglie sono diventate digital, il chief digital officer rischia di essere visto come una chimera, qualcosa ancora da immaginare o addirittura da fuggire.
Nei Paesi nei quali il nuovo “snazzy C-Level title”comincia a emergere, il valore aggiunto che porta a un’azienda, l’importanza del suo ruolo e il profilo del suo mestiere quotidiano non possono essere ricercati innanzitutto in manuali e corsi (anche se negli Usa cominciano ad esserci master e percorsi formativi che si rivolgono al nuovo mercato dei CDO). A dare indicazioni utili è innanzitutto il lavoro stesso che svolgono le persone investite di un compito che se non nella forma, di certo nella sostanza coincide con quella del chief.
Ne “Il Maestro e Margherita”, Bulgakov scrive che “la realtà è testarda”. Farla emergere, nel caso del CDO, è compito talvolta arduo, ma avvincente. E nella lunga serie di domande attorno alla definizione del ruolo è soprattutto la community dei CDO a dover cominciare a dare risposte. Il dibattito è aperto.
Curioso, capace di riconoscere il talento nei collaboratori, non un tecnocrate ma di certo una persona che ha idea di dove va l’innovazione, che sa dialogare con un tecnico e i suoi “Non si può fare”, cattento al cambiamento, con un buon intuito nel capire dove si sposta la palla, con una solida idea di marketing e con il tempo per navigare, leggere e studiare. E anche capace di scrivere (il famoso e provocatorio articolo di Shankman segnò la strada due anni fa: http://www.businessinsider.com/why-i-will-never-ever-hire-a-social-media-expert-2011-5) e comunicare per tracciare la via a chi lavora nel team. E poi appassionato. Perché la Rete traccia la passione, il calore, la conoscenza dei temi che si trattano. E la passione va trasmessa al gruppo, che spesso si trova alle prese con “attacchi frontali”.
Qualunque sia la formazione di base, queste qualità sono figlie dell’esperienza e non (solo) di un super Master.
Se poi ha letto Bulgakov, mi prendo la licenza, per me vale 1000 punti in più 🙂