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Comunicazione digitale. È davvero una professione?

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Gli spot #coglioneno per “la tutela dei creativi”, la risposta di Wired #creativoperforza e l’esperimento de La Stampa Academy. Le università che dicono? 

Da un lato la campagna #coglioneno dall’altro l’Accademy de La Stampa in collaborazione con Google. La miriade di professioni nate attorno al digitale gravita attorno a questi due esempi che il caso ha voluto accadere quasi in contemporanea.

#coglioneno  ironizza sulla condizione di molti giovani creativi che vengono stipendiati a promesse e pacche sulle spalle. Protesta legittima. Lavorando da molto tempo nel settore digital so bene quanto sia diffusa l’abitudine di distribuire ‘pipe di tabacco’ ai giovani dipendenti (termine per altro improprio, visti certi contratti). Ma il problema non è tutto qui.

Wired ha risposto a #coglioneno con #creativoperforza, sottolineando che la parola creatività è ormai “una vera cometa nella cui scia compare un po’ di tutto” e che con la dicitura Hipster oggi si indica una gamma quasi infinita di professioni 2.0: web editor, videomaker, social media manager, illustratori, grafici … con il risultato che la parole creatività si è liquefatta. Wired non nega il “malcostume brillantemente stigmatizzato nello spot” e aggiunge però che non tutti sono creativi. Ma il problema non è tutto qui.

L’apertura de La Stampa Accademy entra – a mio parere – nel dibattito suscitato dagli spot per “la tutela dei creativi italiani”. È un esperimento, ancora tutto da verificare in Italia, ma coglie un aspetto mancante nella dialettica (ingigantita dal digitale) tra creativi sfruttati e creativi presunti: la formazione. Nel mio lavoro quotidiano ho incontrato creativi junior (ma anche senior) di vario genere e tipo. Negli anni ho lavorato con almeno un centinaio di loro, alcuni del tipo #coglioneno altri più simili al #creativoperforza e altri ancora del genere “creativo per caso” (un paradosso), che non ha scelto la comunicazione digitale come professione, ma ci si è ritrovato dentro suo malgrado.

Un settore professionale magmatico e contraddittorio: è la condizione con la quale devono fare i conti tutti. Chi ha accettato la sfida – parlo di casi reali – era stagista e oggi fa il capo ufficio stampa digitale, era un social media manager improvvisato e ora ha una start up, faceva il data entry e oggi dirige la comunicazione digitale di una big company italiana. Persone con nome e cognome che però hanno dovuto sobbarcarsi la fatica extra di recuperare sul lavoro quel che non avevano ricevuto prima.

Ciò che accomuna il #coglioneno e il #creativoperforza è la formazione, o – per essere più precisi – la mancanza di formazione. Parlo in particolare della comunicazione digitale e delle facoltà che dovrebbero formare i (comunque troppi) giovani che scelgono questo settore come loro ambito di lavoro futuro. Nella maggior parte dei casi, ho incontrato ragazzi con una formazione teorica generale e un’esperienza dei mezzi praticamente a zero. Il tutto aggravato dal fatto che la comunicazione digital è invece quanto di più accessibile esiste al mondo, un campo nel quale ogni giorno si potrebbero sperimentare progetti, strategie, modelli di analisi e campagne. E invece i giovani che fanno comunicazione hanno un’esperienza dei media digitali che ricavano dal loro tempo libero e non si incontra quasi mai con quello che studiano.

I nativi digitali sono già al liceo e stanno per arrivare nelle università. Questo significa che una nuova generazione sta per presentarsi nelle aule dei nostri atenei con un’esperienza diretta, quotidiana e pervasiva nella comunicazione online. I nostri atenei sono pronti ad accoglierli? I tanti corsi di comunicazione sono attrezzati per insegnare agli studenti a usare davvero il digitale, a diventare professionisti del settore?

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