L’Europa contro Google. Tra privacy, diritto di autore e libertà di informazione la rete ha bisogno di regole. Quali servono davvero? E chi le scrive?
“Il diritto all’oblio era un concetto sbagliato dall’inizio: invece di educare le persone a gestire i dati su di loro, si è pensato che bastasse cancellarne alcuni con una legge o una sentenza. Ma è come svuotare il mare con le mani”. Fa riflettere questo commento di Derrick de Kerckhove alla sentenza Ue sulla responsabilità dei motori di ricerca nel trattamento dei dati personali pubblicati su siti web. Il sociologo di internet e allievo di Marshall McLuhan pone un problema culturale tutto da discutere, ma lancia anche un alert: “La decisione della Corte di Bruxelles pone un’altra questione più interessante, di carattere storico. Quali e quanti tentativi di resistenza incontrerà il treno della trasparenza e della tracciabilità?”.
La sentenza della Curia Ue va letta con pazienza perché fa lo slalom in un campo minato: il cosiddetto “diritto all’oblio” è l’argomento centrale e particolare ma la Corte sfiora molti altri punti sensibili del grande dibattito internet-privacy e piazza una lunga serie di distinguo per evitare temi come copyright, trasparenza, diritto di informazione, proprietà intellettuale …
Discutere di regole per internet è come entrare in un labirinto dove molti pensano che è difficile capire quali norme servano, quali debbano essere gli interlocutori attorno al tavolo e quale metodo si debba usare per definirle. Ma esiste sempre un’entrata e un’uscita. So per esperienza che argomenti come la terzietà dei motori di ricerca, i codici di autoregolamentazione, il dilemma privacy-marketing e il trilemma informazione-privacy-marketing presentano molti elementi comuni, ma anche differenze sostanziali.
Le grandi Internet Company della Silicon Valley stanno facendo crescere i loro team di Pubblic Affair e il fatto è indicativo del peso che attribuiscono al dibattito sulla regolamentazione della rete. Del resto il contenzioso tra l’Unione europea e Microsoft insegna: in dieci anni Bruxelles ha inviato a Redmond sanzioni per quasi 2miliardi di euro. E in questo caso l’oggetto del contendere era molto più semplice perché legato ad hardware e software. Oggi il campo di battaglia potrebbe essere tanto sterminato quanto immateriale come del resto è la rete.
Regolare internet è un esercizio complesso ma possibile. Solide basi di una common law ancora non esistono e in rete non viaggiano solo zettabyte di dati sensibili, ma anche miliardi di dollari, euro e yuan. Per ‘venirne a una’ bisogna immettersi in un percorso nel quale non può vigere la semplice distinzione controllati-controllori o sanzionati-sanzionatori. Sul tavolo del regolatore devono arrivare le voci di tanti e nella definizione del sistema di governance devono trovare spazio anche provider, big company, editori … Le istituzioni devono sollecitare un dialogo tra questi soggetti perché siano i primi a produrre ipotesi di norme contribuendo loro stessi alla creazione della legge della trasparenza simmetrica sulla quale si basa la rete. Altrimenti il rischio è che tutto si concluda con fare la guerra ai big della Silicon Valley.
Internet è un treno in corsa che ha stravolto le regole in partenza. Microsoft, Google e Facebook occupano una posizione dominante? Gestiscono un patrimonio immenso di big data dai quali derivano il loro successo? È anche per questi motivi che le regole devono nascere in modo diverso, tenendo conto che la rete sta trasformando la società dell’individuo in società dei gruppi e che la condivisione non è solo un fenomeno per gli utenti dei social network, ma anche un metodo di lavoro per gli operatori della rete e le istituzioni.