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Social media intelligence? Spie come noi

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Polizia e servizi usano anche i social per monitorare sospetti e svolgere indagini. È la SOCMINT tra il rischio Grande fratello e il bisogno di una cultura della trasparenza

“C’è qualche pusher nei dintorni di Vaughan con 20 $ di erba? Venga alla carrozzeria Mr. Lube ho bisogno di una canna”. “Fantastico, possiamo venire anche noi?”. Questo dialogo è avvenuto realmente su Twitter. A lanciare in rete la richiesta di marjuana un meccanico di Toronto. A rispondere l’account ufficiale della polizia municipale! Il tweet della York Regional Police è diventato virale. E l’autore dell’infelice cinguettio, dipendente di Mr. Lube, ha perso il lavoro dopo che la polizia ha informato il proprietario della carrozzeria dell’accaduto.

La polizia sui social media non è più una grande novità. E non si tratta di profili o account destinati alle semplici pr online o di “operazioni simpatia” (anche la CIA ha i suoi 56mila like su Facebook). Casi di ricercati scovati tramite social sono sempre più frequenti: il ladro che ringrazia con un post la madre per la cena di Natale e viene catturato dopo tre anni di fughe, il latitante in Germania che scrive i suoi spostamenti su Facebook per aggiornare gli amici del paese in Calabria e offre utili informazioni alla polizia italiana che lo va a prelevare prima dell’ennesimo trasloco.

I social media sono un luogo per tutti e anche chi non è a posto con la legge spesso non resiste alla tentazione di postare, pinnare, twittare e via dicendo. Le forze di sicurezza hanno ormai mangiato la foglia e come racconta ad esempio Robert Siciliano, influencer Usa in fatto di digital security, la social media intelligence (SOCMINT) sta diventando una vera e propria attività affianco alle tradizionali HUMINT – human intelligence (lo spionaggio sul campo vecchio stile) e SIGINT – signal intelligence (intercettazioni e decifrazioni).

Analisi e monitoraggio attraverso i social media sono sempre più frequenti per polizie di tutto il mondo. La logica è semplice: i social sono un nuovo strumento per conoscere i legami di una persona, le sue attività e persino i suoi spostamenti, cioè possono offrire un importante contributo per conoscere il contesto sociale di determinati soggetti e nel caso contribuire alle indagini. Come scrive NextGov, sito specializzato dell’Atlantic Media Co., “anche delinquenti, organizzazioni criminali, gang e terroristi usano i social media. Postano informazioni, condividono foto e video e usano i social per reclutare, fare propaganda e raccogliere fondi”.

Il grande fratello è ormai ovunque? Il problema della privacy e della riservatezza dei dati non nasce certo da questa nuova frontiera dell’intelligence. Certo è che la vicenda del carrozziere di Toronto come del latitante in Germania sottolineano paradossalmente un “problema” di tutti. Derrick de Kerckhove, sociologo di internet allievo di un mostro sacro come Marshall McLuhan, invece di distinguere tra spiati e spioni parla di una “trasparenza simmetrica” dove “chiunque vede ed è contemporaneamente visto”. Invita a non disquisire troppo sulla totale tracciabilità nella quale siamo ormai immersi, perché questa è un dato di fatto che – magari inconsciamente – accettiamo aprendo un profilo social, usufruendo dei cookie, scaricando app o postando e condividendo contenuti. “Quello che possiamo fare, semmai, è imparare a gestire e a curare in qualche modo i dati pubblici su di noi, a partire da quelli che mettiamo noi stessi” dice de Kerckhove. Aggiungendo che “questo è uno dei settori educativi su cui una società matura dovrebbe investire di più, invece siamo lasciati soli di fronte a questo compito. Ma la trasparenza è la condizione dell’uomo del futuro. E sto parlando di un futuro molto prossimo”.

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